Religiosità popolare e spiritualità delle immaginette

Il Sacro nel tuo portafoglio

Fede e Devozione


Religiosità popolare e spiritualità delle immaginette

Nell’ampio quadro della iconografia con le problematiche che hanno agitato la Chiesa fin dai primi secoli, vi è un capitolo minore per qualità artistica e per valore teologico ma che non è da meno sul piano della spiritualità perché ha alimentato la fede di intere generazioni di cristiani. Mi riferisco alle immaginette o santini.

Si potrebbe fare una tipologia non troppo rigorosa delle immagini sacre per meglio evidenziare i rispettivi contesti: le icone o immagini liturgiche con i programmi iconografici delle chiese, le immagini votive e le immagini devozionali. L’intento di questa riflessione sulle immagini devozionali, che sono una sorta di minor agreements, di letteratura minore, è di mettere in evidenza il loro potere “sacrale” niente affatto superato dalle nuove figure di religiosità “post-cristiana” o dell’ana-teismo di Dio dopo Dio[1]. Le immaginette infatti si sono diffuse specialmente con l’invenzione della stampa e hanno permesso lo sviluppo di una spiritualità individuale tipica della devotio. Il fedele poteva portarsi a casa nel portafoglio una specie di amuleto sacro per protezione e per raccogliersi con pensieri devoti in ogni necessità anche solo guardando il santino.  Talvolta la visione era accompagnata da un’invocazione o da una preghiera per alimentare i sensi spirituali.

L’origine di questi oggetti sacri è antica. Potrebbe risalire ai tammata e agli anathemata dell’antica Grecia. La logica delle sacre immagini è bene riassunta da una lettera di Gregorio Magno all’anacoreta Secondino nel 599, quando si complimenta della sua richiesta di immagini perché guardandole si infiamma il cuore e conclude: “Non si fa del male, nel voler mostrare l’invisibile per mezzo del visibile”.

Siamo ancora in un tempo di crisi iconoclasta e tuttavia è notevole la ripresa di Gregorio del tema oraziano dell’efficacia delle immagini. Scrivendo a Sereno, vescovo di Marsiglia, che aveva rimosso le immagini nelle chiese, ammonisce: “Si devono impiegare le immagini nelle chiese, in modo che coloro che sono analfabeti possano almeno leggere guardando sulle pareti quello che non possono leggere sui libri”.

La stessa tematica più approfondita viene ripresa da Tommaso d’Aquino nel terzo libro delle Sentenze di Pier Lombardo, in cui vengono elencate tre ragioni per l’istituzione di immagini nelle chiese: “Primo, per l’istruzione degli analfabeti, che possono imparare da esse come da libri; secondo, in modo che il mistero dell’incarnazione e gli esempi dei santi possano rimanere più saldamente nella nostra memoria grazie alla loro quotidiana rappresentazione davanti ai nostri occhi; e terzo, per suscitare le emozioni, che sono più efficacemente sollecitate da ciò che si vede piuttosto che da quello che si sente”.

L’ultima argomentazione è anch’essa legata all’Ars poetica di Orazio, che recita così: “Ciò che la mente percepisce attraverso gli orecchi è per essa effettivamente meno stimolante di quanto le viene presentato attraverso gli occhi, e di ciò che lo spettatore può credere e vedere da sé”.

L’importanza di questo affectus visivo nella trasmissione della fede va sottolineata sotto il profilo antropologico e teologico. L’intuizione di Orazio infatti, implementata da molti autori cristiani di ogni epoca, trova riscontro negli studi odierni di “cultura visuale” (Visuelle Kultur), che sottolinea il primato dell’immagine sulla parola, del gesto sul concetto e su una riscoperta della dimensione concreta e sensibile del reale[2].

Dal punto di vista teologico poi la vicenda delle immagini sacre segnala una diversa fonte cognitiva nella tradizione ecclesiale perché il modello concettuale e dogmatico della fede, che è stato il paradigma vincente, ha sempre avuto a latere un modello alternativo fondato sul vedere e sui sensi. Ecco le raccomandazioni del predicatore alsaziano Geiler von Kayserberg (1445-1510): “Se non sapete leggere, allora prendete un’immagine di carta in cui Maria ed Elisabetta siano raffigurate mentre si incontrano; la comprate per un centesimo. Guardatela e pensate come sono state felici, e ad altre cose buone… In seguito, mostratevi loro in atto esteriore di riverenza, baciate l’immagine sulla carta, inchinatevi di fronte ad essa, inginocchiatevici innanzi”.

Potere della stampa! Per un centesimo si portava appresso le presenze vive dei santi, della Madonna e di Cristo. La gente può portare a casa i suoi santi con l’esperienza mistica percepita nei luoghi del pellegrinaggio. “Le riproduzioni, scrive D. Freedberg, agiscono a guisa di souvenir e rievocano, in una forma nuova, l’esperienza dell’archetipo, non meno che le avventure vissute per raggiungerlo, per esempio, o lo shock dell’agnizione o della sorpresa. L’immagine diventa come un feticcio: è trattata con amore, risveglia un dolce affetto o le lacrime, può essere toccata e manipolata con la frequenza e la passione voluta. Di fatto, talvolta l’immagine di carta può essere polverizzata e mangiata attendendosi questo o quel buono effetto”[3]. L’immagine sacra ha il potere analogo alle sacre specie eucaristiche e come nella tradizione delle icone si poteva comunicare con Dio mangiando i colori, così nei santini si poteva avere una grazia nutrendosene materialmente.

Queste immagini conservavano i tabù tipici delle cose sacre: non si potevano gettare ma solo bruciare, potevano essere baciare e pregate, dovevano esser poste in un luogo a parte e non tra gli oggetti consueti. La riproduzione di massa non doveva inficiare la loro particolarità legata a una benedizione o all’acquisto in un luogo di culto deputato. L’efficacia non era automatica.

Il pericolo nel rapporto tra immagine e percezione sta nell’evitare che l’attrazione empatica si fermi solo ai piaceri dei sensi, riducendo il religioso ad una vago sentimentalismo di maniera. È il problema classico del rapporto tra visibile ed invisibile.

L’efficacia dell’immagine dipenderebbe dalla sua relazione simbolica con quel che rappresenta. Non occorre rifarsi alla magia per capire come funziona, basta una ricerca fenomenologica dei parametri cognitivi. Se la riproduzione si adegua sul modello di riferimento allora funziona, altrimenti no. È la ragione per cui l’iconografia religiosa si basa su modelli standard. Un pellegrino con conchiglia, ferita sulla gamba e cane con in bocca un pane non può essere che San Rocco.

L’immagine non rappresenta solo un’identità convenzionale perché il simbolo, se non lo si intende come mera figurina, è la realtà che rappresenta. La polarità tra prototipo e sua effigie non è un doppio slavato, ma una piena partecipazione: l’uno è l’atro senza confusione come nel mistero trinitario.

L’immagine sacra funziona con gli stessi meccanismi del rito. L’azione rituale infatti sarebbe connessa alla percezione di immagini dirette. Secondo Lawson e Mc Cauley l’azione rituale causa gli esseri soprannaturali in un’immagine immediata[4], per cui “si può dire che ancora oggi il rito è un ‘porsi alla presenza’ e un collaborare con le immagini mentali dell’agente soprannaturale in rapporto a Dio, a Gesù Cristo, agli angeli, ai santi e che la liturgia è una ‘presentificazione’ e ‘animazione’ di immagini”[5]. Ecco perché le immagini religiose sono parte integrante dei riti ed ecco perché le immagini da sole funzionano ritualmente come condensatori di presenza sacrale anche quando un fedele si attarda a guardare un santino in una tasca recondita del portafoglio o in mezzo alle pagine di un libro.

Il fedele con in mano un santino prega non tanto per piegare Dio alla propria volontà, ma è come il grido del povero del Sal 44, 24 perché Dio si svegli e venga in suo soccorso. È una religiosità di carne e di sangue dove il rapporto con Dio è un corpo a corpo, come nella vicenda di Giacobbe che lotta con Dio tutta la notte senza lasciare la presa. Ecco l’ingenuità del fedele pio che guarda commosso il suo santino: tenere la presa nella lotta con un Dio che tace, ma che non può neppure scappare lasciando l’uomo solo in questa valle di lacrime.

 

[1] This was affirmed after publication of the book by R. Kearney, “nuovo ermeneuta di

Dio e delle religioni”. It states: “No one can nourish absolute certainties with regard to

the absolute”(p.6). He considers that there should be a return to that “which could be

called the original scene of religion”. R. KEARNEY, Ana-teismo. Tornare a Dio dopo Dio,

Rome, Fazi Editore, 2012, pp.6, 8.

[2] Cf. A. PINOTTI e A. SORMANI, Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi,

Torino, Einaudi, 2016.

[3] D. FREEDBERG, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del

pubblico, Torino, Einaudi, 2009, p. 268

[4] Cf. R.N. McCAULEY – E.T. LAWSON,Bringing Ritual to Mind. Psychological Foundations

of cultural Forms, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 13s.

[5] A.N. TERRIN, “Religione visibile”. La forza delle immagini, in Liturgia e immagine, a cura

di R.TAGLIAFERRI, Padova Edizioni Messaggero – Abbazia di Santa Giustina, 2009, p. 83.

Roberto Tagliaferri*

 


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